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giovedì 3 dicembre 2015

“Little Heroes”, un documentario sulla lotta di Paola Leone contro la Malattia di Canavan

Nel 2001 il gruppo della ricercatrice cagliaritana è stato il primo al mondo a utilizzare un vettore virale su una patologia neurologica

CAGLIARI – Un viaggio tra il dolore, la speranza e l’amore dei genitori per i propri figli che lottano contro una malattia rara e gravissima. È il tema del toccante documentario “Little Heroes”, diretto dal regista cagliaritano Nicola Ambu e girato interamente negli Stati Uniti. I protagonisti sono da una parte i piccoli pazienti, dall’altra l’instancabile impegno del gruppo di ricercatori coordinati da Paola Leone, pioniera nel campo della terapia genica e delle cellule staminali.


Il documentario è stato presentato lo scorso 12 novembre nella sede dei Riformatori Sardi alla presenza del regista, della ricercatrice, del coordi
natore regionale del partito Michele Cossa e del deputato Pierpaolo Vargiu.

La prof.ssa Leone, cagliaritana, si forma nel 1987 all’Università di Padova con una laurea specialistica in Psicologia Sperimentale e Neuroscienze e frequenta l’Istituto di Farmacologia e Tossicologia Sperimentale dell’Università di Cagliari, nel gruppo diretto dal prof. Gaetano Di Chiara. Dal 1989 svolge la sua attività di ricercatrice in Canada e negli Stati Uniti, con una breve parentesi in Nuova Zelanda.

Dopo il post-dottorato a Montreal, arriva all’Università di Yale e successivamente alla University of Medicine – Rowan University del New Jersey, dove attualmente insegna Neuroscienze, Farmacologia ed Etica delle Sperimentazioni Cliniche e dirige il Centro di Terapie Cellulari e Geniche. Ha pubblicato 66 articoli su prestigiose riviste internazionali, è titolare di brevetti sulle terapie geniche e cellulari e ha vinto numerosi premi in Italia e negli Stati Uniti.


Professoressa, in che modo si manifesta la malattia di Canavan?
Si tratta di una gravissima patologia ereditaria, autosomica recessiva e neurodegenerativa. Precisamente è una leucodistrofia, una malattia della materia bianca cerebrale, che in questi bambini non viene prodotta. Come mammiferi nasciamo con un minimo di materia bianca e la sviluppiamo durante i primi due-tre anni di vita, quindi i primi sei mesi sono fondamentali. I sintomi appaiono appunto durante i primi mesi di vita: i bambini non hanno uno sviluppo motorio normale, presentano macrocefalia e il 70% di loro mostra anomalie oculari.

E la causa è la mancanza di un enzima.
Il 98-99% di questi bambini ha mutazioni così gravi da rendere completamente inattivo l’enzima aspartoacilasi, e presenta caratteristiche cliniche assolutamente devastanti. Il restante 1-2% ha un’attività residua di questo enzima. La malattia è stata descritta nel 1931, le caratteristiche biochimiche alla fine degli anni ’80 e il gene è stato scoperto nel 1994: è una patologia con molteplici ramificazioni che stiamo ancora studiando.

Si ha un’idea della sua incidenza?
È difficile conoscere l’incidenza e la prevalenza di una malattia così rara, a meno che non ci si riferisca alle mutazioni più note, quelle degli ebrei ashkenaziti: in questa popolazione, un soggetto su 37 è portatore. Ma ormai sono diffusi i test prenatali, per questa e altre patologie ad alta prevalenza nei discendenti ashkenaziti come la Fibrosi Cistica, l’Anemia di Fanconi, il Tay-Sachs etc, quindi se ancora nascono bambini con la malattia di Canavan in discendenti ashkenaziti, ciò è spesso dovuto ad errori diagnostici o all’inesperienza degli ostetrici o dei genetisti. In ogni caso, chiunque abbia qualche possibilità di discendenza ebrea dovrebbe svolgere questo pannello di test genetici, che non è costoso ed è disponibile anche in Italia.







 




















Nel 2001 il suo gruppo è stato il primo al mondo ad utilizzare un vettore virale su una patologia neurologica.
Sì, la malattia di Canavan era un morbo ideale per applicare la terapia genica utilizzando come vettore un virus adenoassociato, non patogeno, geneticamente modificato per esprimere questo gene in pazienti affetti che quindi presentano una doppia mutazione sul gene ASPA. Ideale perché la terapia era somministrabile direttamente nel cervello, che era il nostro target: nel morbo di Canavan, infatti, non ci sono altri organi coinvolti. La tecnica si è poi estesa ad altre patologie, come il Parkinson con il gene GAD o GDNF, la malattia di Batten e alcune forme di cecità.

Quanti pazienti con questa malattia ci sono in Italia? E quali terapie seguono?

Sono circa 15 pazienti. Noi siamo l’unico gruppo al mondo che ha svolto studi di terapia genica su questa malattia, durante un protocollo clinico approvato negli USA dal Food and Drug Administration che ha arruolato 13 pazienti e si è concluso nel 2008. In Italia alcuni pazienti affetti dal morbo di Canavan sono in cura con la pediatra Imma Florio, esperta di leucodistrofie, che li segue con terapie farmacologiche prescritte ad hoc, senza le quali andrebbero incontro a una rapidissima e progressiva neurodegenerazione. In questi giorni mi trovo in Italia proprio perché, insieme ai pazienti italiani e alle loro famiglie, abbiamo incontrato a San Pietro Papa Francesco.

Non è possibile somministrare a questi pazienti una terapia enzimatica sostitutiva, come ad esempio nelle malattie di Gaucher o di Hurler?
Il problema della terapia enzimatica è che spesso, proprio come per la malattia di Gaucher e di Hurler, non passa la barriera ematoencefalica, quindi non migliorerebbe la patologia cerebrale. Inoltre c’è anche un problema pratico: non sarebbe fattibile somministrare elevate dosi d’enzima nell’arco di una giornata. Quindi la terapia enzimatica per il morbo di Canavan, oltre agli enormi costi economici, non sarebbe efficace. La terapia genica, invece, si realizza una sola volta nella vita.

In questi 14 anni la ricerca è andata avanti, avete perfezionato la tecnica e creato nuovi protocolli clinici di terapia genica. Il risultato è stato un aumento nell’aspettativa di vita di questi pazienti?
Assolutamente, e questo è merito del gruppo col quale lavoro, dei pazienti, delle famiglie, delle fondazioni, dell’Istituto Nazionale della Sanità statunitense, dei singoli benefattori e di tutte le persone che ci danno un sostegno morale e finanziario. Prima i bambini avevano un’aspettativa di vita fino ai cinque o ai sette anni, in stato semivegetativo e con un’atrofia cerebrale gravissima, mentre adesso molti pazienti superano la seconda decade di vita. La paziente più adulta che ha partecipato al protocollo di terapia genica – e che è una delle protagoniste del documentario “Little Heroes” – oggi ha 22 anni.



FRANCESCO FUGGETTA - #CA_mbia CAGLIARI

(Pubblicato sull'Osservatorio Malattie Rare e sul sito dei Riformatori Sardi)


 

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